Abbiamo chiesto a Nicola Perullo, professore associato di Estetica all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, un’anticipazione del suo libro di prossima uscita. Ecco il suo testo.
“A marzo uscirà un mio lavoro dal titolo Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto (Mimesis Edizioni). Non è un libro sul vino; non discute di territori, di profili sensoriali, di denominazioni né presenta infinite degustazioni con valutazioni accluse. È un saggio che, attraverso il vino ma anche grazie al vino, promuove un modello di conoscenza relazionale, partecipata e processuale. Un modello diverso da quello dell’oggettività, sul quale siamo, più o meno consapevolmente, abituati a “tarare” molto di ciò che ci circonda: purtroppo, anche il vino. Sul piano teorico, la mia proposta si basa su un insieme di argomenti filosofici, antropologici, estetici, semiologici e storici che costituiscono lo sfondo del piano pratico, nel quale descrivo esperienze e percorsi con l’intento di spostare l’attenzione dal sapere su al sapere con. Con entrambi i piani, ho cercato di tirare le fila del mio doppio percorso: quello di filosofo eclettico ed eterodosso e quello di appassionato amante del vino da circa ventitré anni.

Non nego affatto che sia utile e anche bello sapere molte cose sul vino. Ho cominciato a interessarmi dell’amato liquido nel 1992 e, nel mio piccolo, ho seguito tutto il classico iter che mi ha portato, per un certo periodo, sia a collaborare stabilmente alla cultura delle guide, sia a insegnare, apprezzare e coltivare il gusto. Non rinnego questo percorso: Epistenologia non è una negazione o una rimozione polemica. Semplicemente, essa propone un modo radicalmente diverso di approcciarsi al vino per mostrare come, con esso e grazie ad esso, coloro che lo amano e lo apprezzano possano fare anche esperienze diverse da quelle della descrizione presunta “oggettiva” e dell’apprezzamento come giudizio basato su presunte caratteristiche che avrebbe di per sé quel vino.

Nel caso specifico, il suggerimento al quale invito con il mio libro è: perché non parlare un po’ meno di vino o sul vino, e parlare un po’ di più con lui? Dove la preposizione “con” vale nei due sensi: parlare col vino, in quanto ente vivente, cioè dialogare con lui come fosse animato e capace di corrispondere con noi; ma anche parlare grazie al vino, quale conduttore, attore o sfondo di un determinato contesto. Un vino, questo vino che sto bevendo e di cui godo adesso, è compartecipe dell’esperienza in cui anche io, e chi è con me, è coinvolto. E può essere protagonista di quest’esperienza anche senza che si parli esplicitamente di lui.

Perché faccio questa proposta? A un certo punto, circa cinque anni fa, ho cominciato a provare un certo disagio per il modello standard dell’apprezzamento del vino, un modello che viene quasi sempre trasmesso come se fosse ovvio, naturale, e l’unico possibile. Così ovviamente non è: questo modello ha una storia e risponde a determinati scopi ed esigenze. Questo disagio, peraltro, negli ultimi anni, è condiviso da tanti appassionati: da più parti si dice che bisogna cambiare modo di approccio al vino, che occorre un linguaggio più libero e meno autoreferenziale, ecc. Il punto, però, secondo me, è che il vero limite del modello che in molti critichiamo sta nel manico; e il manico è proprio l’ideologia della degustazione intesa come pratica e attività superiore, più oggettiva, del bere. Il modello della degustazione analitica standard, basato su elenchi e tabelline nelle quali costringiamo ad entrare il nostro apprezzamento, è il modello che si basa sul paradigma oggettivo: c’è un soggetto che percepisce un oggetto e, nel caso in questione, lo valuta e lo giudica come se fosse qualcosa che esiste di per sé, indipendentemente da me o da noi che lo beviamo. Le domande che ho cominciato a pormi, come filosofo e come estetologo ma innanzitutto come amante del vino, sono domande in apparenza semplici ma, credo, decisive e profonde. Per esempio: perché la “valutazione” del vino “più oggettiva” sarebbe quella che si fa in una stanza, in silenzio, con tanti bicchieri in fila come polli d’allevamento in batteria – una situazione totalmente astratta e artefatta – e non, eventualmente, quella dove il vino è messo alla prova nel suo ambiente “ordinario” e comune, in cui si mangia, si parla, si ascolta musica, si legge qualcosa? Ovviamente conosco la risposta, ma allora la domanda diventa quella relativa al significato della critica oggi, all’interno dell’economia di mercato, e la cosa ci porterebbe lontano, e qui non è il luogo. Oppure: perché qualcuno sostiene in modo dogmatico pensieri come “un grande vino deve essere comunque complesso”? I Beatles, per esempio, sono stati indubbiamente grandi senza essere complessi, e perché il vino non potrebbe altrettanto? E la complessità sta nel vino o nella mia relazione interattiva con esso?

Da queste riflessioni, collegate alla mia pratica che sempre di più inclinava a preferire una bella bottiglia da bere piuttosto che tanti bicchierini da roteare e degustare, è nata l’idea dell’epistenologia, che è un doppio gioco di parole a significare, da un lato, l’epistemologia del vino, dall’altro, l’impossibilità di separare l’ontologia (ciò che vorrebbe stabilire l’essenza, la natura del vino in sé) dalle esperienze che ne facciamo, appunto, da come lo conosciamo e ne godiamo (epistemologia).

L’epistenologia parte del presupposto che il “vino” – o almeno, non tutto quello che va sotto il nome di “vino” – non sia riducibile a un oggetto/merce da misurare. Metto le virgolette al vino perché non credo che esista qualcosa come “il vino” in sé: esistono vini, bottiglie incontrate, esperite, bevute. In ogni caso, per motivi che attengono tanto alla storia che alla cultura di questa bevanda, il vino possiede proprietà che vanno molto al di là della sua catalogazione secondo schede di riferimento prefissate e univoche. Quindi la mia proposta cerca di suggerire che il vino si può percepire anche come un’entità viva e vitale da incontrare e con cui si può entrare in relazione. E come in tutte le relazioni, si creano immagini, percorsi, metafore, nuove possibilità. Epistenologia propone dunque di lavorare creativamente e attivamente, attraverso la relazione col vino, a nuove lingue: più individuali e personali, da un lato, ma anche altrettanto comunicabili e condivisibili, dall’altro.

Può sembrare non immediato, ma in questo saggio cerco di convincere che tra la descrizione: “sentori lievi di bacche rosse inizialmente, poi emerge un soffuso sottofondo di roccia vulcanica, per chiudere su un tripudio di erbe caramellate” e “pomeriggio d’inverno con te, sdraiati sulla spiaggia” non c’è alcuna differenza in termini di “oggettività” rispetto al “vino”. Sono due modi entrambi convenzionali e negoziali, ma non per questo arbitrari, di fare-segno col vino. Credo però che oggi, noi, qui, della seconda descrizione abbiamo più necessità che della prima, perché meno irrigidita e più viva.

Ciò che crediamo essere il linguaggio “tradizionale” e solido della degustazione è stato in realtà codificato da poco: le ruote degli aromi, le schede con le crocette e i punteggi, la successione (che pare naturale!) vista-olfatto-gusto, sono tutte cose diventate norma col tempo. In particolare, dalla seconda metà del Novecento, con la scuola enologica di Davis prima e poi con il giornalista Robert Parker. Se si va a vedere come parlavano di vino i grandi esperti del passato non si trovano certe descrizioni. Quindi bisogna comprendere che la grammatica del vino degli ultimi 50 anni si inserisce in un discorso più ampio, che lega una certa idea di scienza oggettiva e un po’ riduzionista anche alla sensibilità. I limiti di questo linguaggio sono dunque essenzialmente due: il primo, non comprendersi come storicamente e culturalmente prodotto. Spesso questi degustatori e sensorialisti del gusto non hanno alcuna consapevolezza storica. Il secondo limite è legato alla rigidità e alla povertà espressiva di questo linguaggio, che riduce ogni esperienza col vino a poche parole, sempre le stesse, inserite in un codice fisso e univoco, del tutto non caratterizzato, che prescinde dai contesti, dalle esperienze, dai cambiamenti che anche il vino subisce e produce. Le lingue del vino sono molte, perché col vino si possono progettare differenti percorsi e obiettivi: venderlo, abbinarlo al cibo, berlo per intossicarsi, berlo per condividere un momento importante, ecc.: come si può pensare di ridurre tutto questo a una scheda analitica referenziale che descriverebbe la “realtà oggettiva” del vino?

Poi, il problema è che il vino non si legge; si beve. La degustazione è una lettura intellettuale del vino. Nella degustazione, il gusto è usato come senso teoretico, che interpretando il vino come oggetto ne tiene a distanza le proprietà più evidenti (come il potere inebriante e socializzante o la capacità dissetante). L’epistenologia propone di considerare il vino non come oggetto ma come sostanza che si mescola a noi che beviamo. La descrizione di una degustazione cerca di restituire il senso di un’esperienza fatta da qualcun altro, di solito; ma questo ci dice assai poco di quello che poi accadrà quando berremo quel vino. Quindi, quando si scrive di vino bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di mettere a nudo i propri presupposti, cosa noi ci aspettavamo, il contesto in cui lo abbiamo bevuto, ecc., così da dare al lettore più informazioni possibili non solo sul vino ma sull’esperienza con quel vino. Per me, la descrizione scritta di un vino è come la fotografia di una relazione in un dato momento: coglie un aspetto, una particolare situazione, mai il tutto. So benissimo che le esigenze giornalistiche o di mercato non possono consentire questo tipo di approccio; però, quando le esigenze sono quelle dell’amatore, del frequentatore e del conoscitore “ordinario” (i contesti in cui si beve il vino nel 99,9% dei casi) si può certamente cambiare modello. Godere il vino e, se si vuole proprio parlarne, aprirsi a narrazioni più aperte, duttili e creative realizzate con strumenti linguistici molteplici (non necessariamente verbali).

Pensate all’atteggiamento standard del degustatore. Subito questa smania di giudicare, di capire subito quel che va e quel che non va. Questa estetica ridotta al giudizio, che miseria! Poche centinaia d’anni di estetica del giudicare, della soggettività giudicante, e si crede che questo sia l’UNICO modo di rapportarsi a qualcosa sul piano non razionale: GIUDICARLO esteticamente. L’epistenologia, su questo piano, cerca di superare l’estetica borghese dell’oggetto, del prodotto, del criterio di valutazione e dell’unico dio, a favore di un’estetica sciamanica, plurale, godibile e pagana.

L’epistenologia, dunque, non è un gioco di abilità – non mira a vedere chi ne sa di più, chi è più “bravo”. Con essa, si effettua il passaggio dal sapere SUL vino al sapere CON il vino, per creare esperienze significative. Per questo, tutte le lingue hanno pari dignità e pari diritto. Lo scopo non è costringere l’immaginazione nel giudizio, piuttosto è liberare il giudizio nell’immaginazione. Tutti i vini sono uguali, dunque? Certo che no. Esattamente come ci sono persone con cui è più facile entrare in relazione, fare certi discorsi, progettare o scambiare esperienze, così ci sono vini più vivi e vitali di altri che favoriscono uno scambio attivo e che producono orizzonti di senso dentro ai quali ci sentiamo più soddisfatti e felici.”
di Antonio Tomacelli | 04 gen 2016, in http://www.intravino.com/