“La cucina, il focolare domestico, era il punto di ritrovo della famiglia della generazione passata. Tutta la giornata si sviluppava in funzione del pranzo, che rappresentava il momento in cui ci si riuniva e in cui si discuteva delle decisioni importanti. Il cibo, allora, diventata il simbolo che rafforzava l’unità familiare e, per questo, veniva preparato con tanta cura. Negli anni sono state rivalutate anche tutte le tradizioni della cucina povera che spesso è più gustosa dei piatti della cucina moderna, anche se messi insieme da chef di conclamata fama. L’inverno gastronomico in Piemonte è sempre stato generoso e abbondante; per cominciare era la stagione dell’uccisione delmaiale, quindi di quell’infinità di piatti che dal maiale nascono: dagli insaccati alla Tofeja (una sorta di zuppa di fagioli, arricchita con erbe, l’orecchio e il piedino del maiale e soprattutto con la cotenna). E ancora le ormai quasi introvabiliFresse (fegato di maiale tritato con carne e ginepro e fritto nello stesso grasso di maiale). E naturalmente la Paniscia del Vercellese, Novarese e della Val Sesia, un tipico risotto a base di fagioli, lardo, cavolo verza, carote, sedano, cipolla e vino rosso (gli ngredienti variano a seconda della località). In inverno “maturava” anche il cappone, tipico piatto ancora oggi consumato a Capodanno. Tra gli altri piatti antichi, oggi molto rari, la Masciuta (carne di bue in salamoia e affumicata, quindi bollita con aglio) tipica di Alagna, e i Meiron ‘d crava (carni di capra in salamoia, tipiche della zona di Mondovì). Da inverno anche l’Urbelecche, piatto antico della cucine walser: praticamente un bollito misto con molte qualità di carni e verdure; il brodo può essere anche utilizzato per cuocervi un risotto. “Pronta” per l’inverno anche l’oca, animale da cortile diffuso nelle zone delle risaie, con tutti i piatti che ne derivano, dal salame al prosciuttino, dall’oca ai marroni o alle mele. Da secoli, anche se non tipico della regione piemontese, in inverno è diffuso nelle campagne il baccalà, consumato in molte varianti. C’era poi il Marzapane (specialità del basso Novarese) che, nonostante il nome, non è un piatto dolce, bensì un sanguinaccio servito arrosto o lessato. Ma la regina dell’inverno è sempre stata la polenta. Nelle valli povere del Cuneese è ancora viva la tradizione della Polenta a l’Aire ‘d l’us (polenta all’aria dell’uscio), che è un modo pittoresco per dire “polenta e nient’altro”. Nel Canavese si consumano ancora oggi le Miasse, crostini di polenta. Misto di polenta e maiale, dunque ancora tipicamente invernale, è la Puccia, una sorta di polentina molle con cavoli e maiale, nata probabilmente secoli fa, nella povertà delle campagne. Sempre a base di polenta è ormai l’introvabile Puut, piatto tipico povero della cucina di Ghemme, è una sorta di polentina liquida a base di acqua, farina di frumento, burro e sale. Veniva servita calda in scodella, con latte freddo. Invernale, è naturalmente la Fonduta, il più classico e conosciuto fra i piatti di questa regione. Si tratta di formaggio fuso servito con patate bollite o cetrioli. Tra le verdure tipiche della stagione invernale, oltre a quelle abituali, i Tapinambour, ingrediente della celeberrima Bagna Caoda (in piemontese “salsa calda”) con il suo rito di mangiare collettivo. La salsa è a base di aglio, olio extravergine d’oliva e acciughe, il tutto ridotto mediante una paziente cottura. Veniva portata in tavola nel suo tegame di cottura chiamato dian, rigorosamente in terracotta, e mantenuto alla giusta temperatura mediante uno scaldino di coccio riempito di braci vive, chiamato s-cionfetta. Oggi si consuma con vari tipi di verdura cotta o cruda, ma un tempo si intingevano solocardi gobbi, tipici di Nizza Monferrato, i topinambur e i peperoni conservati nella raspa (ciò che rimaneva del procedimento di vinificazione del grappolo d’uva)”. [da La Stampa del 27 novembre 2013]